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  1. kiccasinai
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    Un articolo da uno dei miei scrittori preferiti: Tahar Ben Jelloun è uno scrittore marocchino, che vive a Parigi e ha quattro figli. Ha pubblicato molti romanzi con Bompiani ed Einaudi e nel 1998 ha ricevuto il Global Tolerance Award da Kofi Annan, per "Il razzismo spiegato a mia figlia".,brevissimo ma molto tenero ed intenso.
    Un dialogo tra padre e figlia piccolina,semplice e immediato.
    Ma ecco invece un articolo pubblicato su Repubblica nel 99...lo so' è un po' datato...ma incredibilmente attuale!



    Lo storico conflitto tra Islam e modernità

    di Tahar Ben Jelloun


    A partire dalla metà del XIX secolo l' Islam ha sentito il richiamo della modernità, un impulso a cercare una conciliazione fra teologia e filosofia. Il primo a promuovere questa unione, in cui furono introdotti il dubbio e la razionalità, fu un persiano, un filosofo nato a Asabadâb nel 1839. Il suo nome è Gamal Ad-dine Al Afghrani (la sua famiglia era originaria dell'Afghanistan). Egli viaggiò molto, in India, in Asia e in Europa e cercò di avvicinare la religione musulmana al pensiero modernista, insistendo sull'aspetto temporale dell'Islam, visto come una morale e un' etica per il cittadino. Gamal Ad-dine ebbe un grande discepolo: l'egiziano Mohamed Abduh, nato nel 1849.

    INSIEME fecero un viaggio a Parigi nel 1884, dove ebbero appassionanti dibattiti con Ernest Renan e altri filosofi. Il loro obiettivo era di dimostrare che l' Islam non è "allergico" né allo spirito scientifico né alla democrazia.
    Dopo la rivoluzione iraniana di Khomeini, il mondo musulmano sunnita moderato è stato scioccato dalle interpretazioni eccessivamente rigorose dell'Islam e ha sentito la necessità di prendere le distanze da un pensiero e da una pratica che legittimavano il fanatismo, l'oscurantismo e un modo quasi anti-islamico di trattare le donne.
    A un certo momento, l'Iran è apparso come il leader di un rifiorire dell'Islam, un Islam politico che si fa promotore della rivincita dell'oppresso contro l' oppressore. In quel caso si trattava di liberarsi del regime dello scià e dei paesi occidentali che lo appoggiavano. Era una guerra politica fatta in nome di una "purificazione" delle mentalità. Fu così che il fondamentalismo, vale a dire un ritorno ai fondamenti dell'Islam, assunse un forte rilievo e diede inizio a una fase di arretratezza le cui vittime furono le donne e le libertà dell' individuo. E si è puntato a scatenare una guerra tra l'Occidente giudeo-cristiano e l'Islam parlando di scontri tra civiltà.
    Le manifestazioni straordinarie che oggi si stanno svolgendo in Iran sembrano voler rompere con il retaggio avvelenato di quella dittatura che ha cercato di allontanare il paese da ogni possibile modernità e che si è, ancora più recisamente, rifiutata di riconoscere l'apporto sostanziale del filosofo persiano Gamal Ad-dine. Sembra un tentativo di rettificare il corso della rivoluzione e di riagganciarsi al modernismo di quell'antenato dal pensiero illuminato, eccellente musulmano e uomo aperto alle altre filosofie e alle altre culture. Forse i manifestanti di oggi non sono consapevoli di questa evoluzione verso la modernità, forse non hanno neppure studiato o letto i libri di Gamal Ad- dine o quelli di Mohamed Abduh. Ma la loro rabbia e la loro determinazione sono dettate dalla volontà di entrare nel nuovo millennio come uno stato moderno, vale a dire uno stato in cui l'individuo è riconosciuto e rispettato, uno stato dove la religione sarebbe una questione di cultura e non un'ideologia totalitaria e repressiva. Ci stiamo avviando verso una separazione della religione dalla politica, cosa che la modernità esige. Sarà una tappa futura.
    Se l'Iran si muove, significa che tutto il sistema del fondamentalismo omicida vacillerà: in Algeria, anche se si continua a uccidere, non lo si fa già più in nome dell'Islam, e in Sudan, in Egitto, gli integralismi si vedranno abbandonati dalla loro fonte di ispirazione. Inoltre, se Israele e la Siria firmano l' accordo di pace, i commandos sciiti, molto vicini al regime iraniano, si ritroveranno in "cassa integrazione". Il riavvicinamento con i musulmani sunniti è anche un segnale di allontanamento dall'integralismo. Restano i talebani dell'Afghanistan. Quelli sfuggono a qualsiasi logica e a ogni esigenza del mondo civilizzato.
    L'Islam di Gamal Ad-dine e di Mohamed Abduh sta tornando e annuncia il suo desiderio di entrare nel XXI secolo ricordando i suoi principi: la superiorità dell' Islam risiede nella sua fede nella ragione. Ecco che cosa scrisse Gamal Ad-dine: "Questa religione prescrive ai suoi adepti di ricercare una base dimostrativa per i principi di fede. Si rivolge sempre alla ragione e fonda i suoi precetti su di essa. I suoi testi affermano chiaramente che la felicità umana è frutto della ragione e che miseria e perdizione sono la conseguenza dell'ignoranza...". Ora sappiamo che gli integralismi sono l'espressione di una profonda ignoranza. L'Iran di oggi vorrebbe chiudere con quell'epoca in cui la parola di Khomeini era assoluta, indiscutibile e di conseguenza irrazionale. Qualsiasi sviluppo abbiano quelle manifestazioni, il popolo iraniano si sta incamminando verso un'altra rivoluzione, quella della modernità. E non è un caso se le donne sono all'avanguardia di questa volontà di cambiamento.

    (Traduzione di Elda Volterrani)

    Edited by kiccasinai - 14/2/2008, 01:39
     
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  2. kiccasinai
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    La fonte e' asianews.it

    17/10/2007 11:19
    ISLAM - CRISTIANESIMO
    La Lettera dei 138 dotti musulmani al Papa e ai Capi cristiani
    di Samir Khalil Samir, sj
    C’è molto di buono nel documento inviato a Benedetto XVI e ai capi cristiani: maggiore convergenza fra correnti musulmane; attenzione al vocabolario cristiano; desiderio di dialogo. Vi è anche qualche ambiguità e difficoltà. Ma è un primo passo: è tuttora necessario aprire il dialogo anche con il mondo secolare. La grande sura della tolleranza. Un’ampia analisi del nostro esperto sull’Islam.


    Beirut (AsiaNews) - La lettera inviata da 138 personalità islamiche al papa e ai capi cristiani è un primo passo positivo verso un dialogo, che ha però bisogno di divenire più universale e più concreto.

    La lettera si situa in modo esplicito come prolungamento della prima, inviata proprio un anno fa a Benedetto XVI, quale risposta al suo discorso magistrale all’università di Regensburg: per la pubblicazione è stata scelta la stessa data (13 ottobre 2007), che quest’anno coincideva con la fine del Ramadan[1]

    Rappresentatività della Lettera

    Notevole è il fatto che i firmatari sono aumentati rispetto all’anno scorso: da 38 – come era per lo scorso anno – si è passati a 138. Essi rappresentano circa 43 nazioni, tra nazioni musulmane e altre (in particolare occidentale). Ci sono dei gran mufti (cioè capi di fatwa in un Paese), dei responsabili religiosi, dei studiosi e dei privati.

    Fra i firmatari, oltre a rappresentanti dei due grandi gruppi sunniti e sciiti, abbiamo anche rappresentanti di gruppi più piccoli, di sette e perfino di tendenze divergenti, per esempio la tendenza più mistica (sufi), in maggioranza occidentali. Vi sono ad esempio ismailiti, che sono una derivazione degli sciiti; giafariti, anch’essi una deviazione dallo sciismo; ribaditi, che è un vecchio gruppo dell’islam, di cui non si parla molto, ma che ha un rappresentante nello Yemen.

    Ciò indica un allargamento del consenso da parte di un certo ambiente islamico, un passo verso ciò che l’islam chiama l’ijmaa (consenso). Nella tradizione islamica ogni punto della fede si fonda su tre fonti: il Corano, la tradizione muhammadiana (hadith ossia detti, e vita di Maometto), il consenso della comunità, appunto l’ijmaa. Questo terzo passo finora non è mai stato molto valorizzato. Anzi, c’è molta divisione nel mondo islamico: un giorno un imam dice una cosa; il giorno dopo un altro dice una cosa diversa.

    Questa lettera non dice che vi è accordo tra tutti i musulmani, ma mostra che si va verso un certo consenso. Questa convergenza è avvenuta sotto l’egida del re di Giordania e della fondazione Aal al-Bayt (cioè la Famiglia del Profeta dell’islam), guidata dallo zio del re, il Principe Hassan. Quest’uomo rappresenta forse quanto di meglio oggi esiste nell’Islam, dal punto di vista della riflessione, dell’apertura e anche della devozione. Pur essendo un musulmano credente e devoto, egli è sposato a una donna indù che – fatto insolito nell’Islam attuale - non ha dovuto convertirsi all’islam, cosa che invece viene richiesto alle cristiane oggi in Occidente, ma che non è previsto per nulla dal Corano.

    Il primo punto positivo della lettera è perciò la sua rappresentatività, il suo provenire da un gruppo convergente. La lettera è rappresentativa anche perché è inviata a tutto il mondo cristiano. Se si prende l’elenco dei destinatari, abbiamo un quadro molto completo e accurato: oltre al papa, abbiamo tutte le tradizioni dell’Oriente cristiano, i patriarchi delle Chiese calcedoniane e pre-calcedoniane; poi le Chiese protestanti e infine il Consiglio mondiale delle Chiese. Il che mostra che dietro questa lettera vi è qualcuno che conosce bene il cristianesimo e la storia della Chiesa.

    I - La struttura

    Venendo al contenuto, risalta il fatto che il titolo è preso dal Corano: “Una parola comune tra noi e voi” (Sura della famiglia di Imran, 3:64). Questo è ciò che nel Corano Maometto dice ai cristiani: quando vede che non riesce a mettersi d’accordo con loro, allora dice: Venite, accordiamoci almeno su una cosa comune: che non adoriamo che un solo Dio (cioè sull’unicità divina) “e che non prenderemo alcuni di noi come padroni all’infuori di Dio”.

    Da notare che questa parola comune nel Corano, non prende in considerazione alcuna definizione su Maometto. In questa frase non si parla di Maometto come il profeta, o l’ultimo messaggero di Dio. Ciò che qui viene sottolineato come parola comune è l’unicità di Dio. Il che è anche un passo positivo, pur partendo sempre dal Corano.

    La struttura comprende tre parti: la prima è intitolata “L’amore di Dio”, suddivisa in due sottoparti, “L’amore di Dio nell’islam” e “L’amore di Dio come primo e più grande comandamento nella Bibbia”. In realtà, il titolo arabo originale è più preciso: dice “nel Vangelo”. Mettere la parola “Bibbia” (che comprende l’Antico e il Nuovo Testamento) permette di integrare in questo discorso anche il giudaismo (sebbene la lettera sia indirizzata solo ai cristiani). La seconda parte è intitolata “L’amore per il prossimo” (hubb al-jâr). Anche qui si divide in due sezioni: «l’amore per il prossimo nell’islam» e «l’amore per il prossimo nella Bibbia». Di nuovo, l’originale arabo dice “nel Vangelo”.

    La terza parte conclude riprendendo la citazione coranica: “Venite a una parola comune tra noi e voi”, e offre un’analisi interessante in tre parti: “parola comune”, ““Venite a una parola comune” e “Tra noi e voi”.

    II - Qualche riflessione sul contenuto

    Davanti a questa struttura, vorrei fare alcune osservazioni.

    Anzitutto, vi è una continuità fra la prima lettera di un anno fa e questa. La prima lettera si concludeva con la necessità di arrivare a mettersi d’accordo partendo dall’amore di Dio e del prossimo. Con questa i dotti vogliono dire: noi sviluppiamo adesso ciò che avevamo annunciato come fondamento della relazione tra islam e cristianesimo.

    È interessante notare che il vocabolario utilizzato è un vocabolario cristiano, non musulmano. La parola “prossimo” non esiste nel Corano; è tipica del Nuovo Testamento. Di fatti, il testo arabo non dice “prossimo” ma “vicino” (jâr), che non può avere che il senso geografico (come il vicino di casa), a differenza del termine cristiano qarîb, che significa “il prossimo”.

    La parola “amore” è usata nel Corano poche volte. Addirittura, essa non fa parte dei nomi di Dio. Non si dice mai che Dio è l’amante, anche se vi sono alcuni sinonimi meno forti. La parola è invece largamente utilizzata nel cristianesimo. E infatti se si analizza la prima parte, quella sull’amore di Dio secondo l’Islam, noi cristiani lo chiameremmo piuttosto “obbedienza a Dio”, non “amore”. Ma qui essi lo chiamano così per adeguarsi al vocabolario cristiano. Il che è bello, ma un po’ pericoloso perché rischia di essere un gioco di “concordismo”. Di solito i musulmani parlano dell’adorazione di Dio, di riconoscere l’unicità di Dio; ma il tema dell’amore di Dio è tutto un altro discorso, che non è escluso dall’islam, ma si trova abbondantemente nel mondo dei sufi.

    Ad ogni modo, in questa lettera, parlare di “amore di Dio” rappresenta una novità. Forse è anche un modo abile di riferirsi alla prima enciclica del papa Benedetto, “Dio è amore” (Deus caritas est). In ogni caso, c’è il desiderio di avvicinarsi al vocabolario cristiano, anche se nello stesso tempo c’è il rischio di voler intendere cose diverse con una stessa parola.

    Altre questioni di vocabolario

    In questo contesto, la versione araba della lettera usa una terminologia diversa rispetto quella francese o italiana o inglese. Abbiamo già notato il fatto che, laddove l’arabo parla del Vangelo, le lingue occidentale parlano della Bibbia. Do altri esempi.

    Ad esempio: parlando di Cristo, nelle versioni occidentali si cita sempre “Gesù Cristo”. Nella versione araba si dice “Issa al-Massih”. Tale espressione non è coranica, ma è l’unità fra il modo in cui i musulmani chiamano Gesù (Issa) – i cristiani arabi lo chiamano “Jasua” – e la definizione cristiana di “al-Massih”, Cristo, che si trova nel Corano. L’espressione coranica è “Al-Massih Issa Ibn Mariam” (Il Messiah Issa figlio di Maria), mentre l’espressione cristiana abituale è “Jasu’ al-Massih” (Gesù Cristo). Il testo della lettera intreccia espressioni coraniche con espressioni cristiane.

    Quando essi citano Corano e Bibbia, usano due metri diversi. Citando il Corano essi dicono “ha detto Dio”, come ogni buon musulmano. Quando citano versetti della Bibbia, essi dicono solo “come si trova nel Nuovo Testamento”, “come si legge nel Vangelo”, ecc… Il che vuol dire che essi usano, per la Bibbia, un discorso da studioso, più scientifico, mentre per il Corano essi usano una terminologia non scientifica, ma da credente islamico.

    La struttura ultimamente è molto bella: d’ora in poi potremo dire che cristianesimo, ebraismo e islam hanno come cuore della fede l’amore di Dio e del prossimo. Questa è una vera novità, mai detta prima nel mondo islamico.

    Uso della Bibbia

    Nelle citazioni dell’Antico e del Nuovo Testamento, essi danno per assodato che quella della Bibbia è parola di Dio. Anche questa è una novità relativa. Nel Corano questa idea è affermata teoricamente, ma essa è rigettata nella pratica. Molto spesso i musulmani considerano la Bibbia come un prodotto manipolato (muharrafah o mubaddalah) attraverso aggiunte posteriori a un nucleo originario.

    Addirittura, i 138 (alla nota 4) citano in modo esplicito san Paolo a proposito della nozione di “cuore”. In una usanza molto diffusa fra i musulmani, san Paolo viene rigettato, anzi viene considerato il traditore del messaggio di Gesù Cristo, che secondo loro avrebbe dato “un messaggio islamico”. Spesso i musulmani dicono che il messaggio di Cristo era come quello del Corano, ma che Paolo ha introdotto la Trinità, la Redenzione per la Croce e il rigetto della Legge mosaica. Un famoso libro anti-cristiano, pubblicato nel 2000 e vietato in Libano, s’intitola “Togliete il velo da Paolo”!

    Tutti questi piccoli segni mostrano un sincero sforzo di dialogo a livello del linguaggio e delle testimonianze bibliche. Vi sono anche piccole allusioni all’ebraismo, per integrarlo in questa visione. Usando per esempio il termine “la gente della Scrittura”, è chiaro che si vuole parlare anche degli ebrei, anche se il discorso è ufficialmente indirizzato ai cristiani.



    III. Apprezzamento positivo e lettura critica

    Cerchiamo di vedere ora altri aspetti positivi di questo documento, segnalando anche le lacune e gli elementi che necessitano una riflessione più approfondita. Insomma, vorrei fare una lettura un po’ critica della Lettera.

    Ricerca di un fondamento comune … ma non universale

    Venendo al contenuto, l’impressione mia è che, rimanendo a questo livello, è facile mettersi d’accordo. Il metodo usato è di scegliere brani dei testi sacri che possano essere messi in parallelo. Nel Corano vi sono testi in contraddizione con il cristianesimo, ma loro hanno fatto la scelta di privilegiare quelli più simili e vicini. È un passo importante, ma se rimaniamo solo a questo livello, improntiamo un dialogo basato sull’ambiguità. In ogni modo, come primo passo, è utile mettere in rilievo un fondamento comune.

    Anche nella tradizione cristiana c’è la ricerca di un fondamento comune con le altre religioni, anzi con tutte le culture. Tale fondamento, dal punto di vista cristiano, non si basa sul Corano e sulla Bibbia, perché questo escluderebbe i non credenti. Il fondamento comune è la legge naturale, il Decalogo visto come legge naturale, un’etica comune accettata anche dagli atei.

    In un discorso del 5 ottobre scorso, rivolto alla Commissione Teologica internazionale, il papa ha parlato della legge morale naturale, per “giustificare e illustrare i fondamenti di un’etica universale appartenente al grande patrimonio della sapienza umana, che in qualche modo costituisce una partecipazione della creatura razionale alla legge eterna di Dio”. Benedetto XVI continua poi riferendosi al Catechismo della Chiesa cattolica (n. 1955): La vita morale “ha come perno l'aspirazione e la sottomissione a Dio, fonte e giudice di ogni bene, e altresì il senso dell'altro come uguale a se stesso”. Il Decalogo è “legge naturale” e non rivelata in senso stretto.

    Il pontefice continua dicendo che partendo dalla legge naturale, “di per sé accessibile ad ogni creatura razionale, si pone con essa la base per entrare in dialogo con tutti gli uomini di buon volontà e più in generale con la società civile e secolare”.

    Come i firmatari della Lettera, il papa sta cercando in tutti i modi di trovare un fondamento comune al dialogo, al dialogo con tutti; questo fondamento non può essere la Scrittura, ma è l’etica universale fondata sul diritto naturale.

    La lettera inviata dagli esperti musulmani ai cristiani, si ferma a ciò che è comune nella Bibbia e nel Corano. Io penso che il passo seguente dovrebbe essere quello di trovare fra cristiani e musulmani un fondamento più universale. Questo includerebbe alcuni elementi delle Scritture religiose, purché accettabili da tutti; ma dovrebbe andare oltre, trovando i fondamenti di un dialogo universale.

    Questa è una lacuna della lettera, che tenta solo di riannodare i rapporti fra cristiani e musulmani. Lo si dice con chiarezza nell’introduzione, ricordando che “insieme noi rappresentiamo il 55% della popolazione mondiale”. Dunque mettendoci d’accordo potremo quasi imporre la pace al mondo. E’ un approccio tattico, politico. Bisogna andare verso fondamenti razionali della pace, nella verità.

    Per questo, come ha detto il card. Tauran, il testo è interessante, apre alcune strade nuove nel metodo e nel contenuto, ma ha bisogno di essere approfondito per renderlo più oggettivo e non selettivo, per renderlo più universale, e meno politico.

    Distinguere tra politiche e persone

    Da questo punto di vista, bisogna aggiungere un’ulteriore piccola critica. La lettera ad un certo punto chiede ai cristiani di “considerare i musulmani non contro di loro, ma con loro, a condizione che i cristiani non dichiarino la guerra”. Qui essi alludono forse ai problemi della Palestina, dell’Iraq, dell’Afghanistan… Ma lì non sono i cristiani come tali che sono impegnati nella guerra.

    Gli americani in Iraq (se a questo si riferisce la lettera) non sono in Iraq come cristiani che opprimono i musulmani: non c’entra né l’elemento cristiano, né quello musulmano. Si tratta di una questione politica fra gli Stati Uniti e i Paesi del Medio Oriente. E anche se sappiamo che il presidente degli Stati Uniti è cristiano e che la sua fede lo guida, non si puo’ assolutamente affermare che è una guerra dei cristiani contro i musulmani.

    Questo punto è importante perché i musulmani tendono a vedere nell’Occidente una potenza cristiana, senza rendersi conto fino a che punto l’Occidente è secolarizzato e lontano dall’etica cristiana. Questo modo di pensare rinforza la teoria dello scontro di culture (o di religioni), proprio al momento che si cerca di combattere tale teoria!

    Una bella conclusione: convivenza nella diversità

    Un ultimo punto. Nella lettera si cita il versetto coranico sulla tolleranza: “Se Dio l’avesse voluto, avrebbe fatto di voi una sola comunità. Ma ha voluto provarvi con l’uso che farete di quello che vi ha dato. Gareggiate dunque nelle opere buone; voi tutti ritornerete a Dio ed Egli vi informerà a proposito delle cose su cui siete discordi” (Sura della tavola imbandita, n. 5:48).

    Questa sura è la penultima in ordine cronologico del Corano. Ciò significa che questa sura non può essere stata cancellata o superata da un’altra, secondo la teoria islamica dell’interpretazione coranica, detta dell’abrogante e dell’abrogato (nâsikh wa-l-mansûkh). Questo versetto è fondamentale perché dice che le nostre diversità religiose sono volute da Dio. La conseguenza è: “gareggiate nelle opere buone” come modo di dialogare. Questa è davvero una bella scelta da parte loro per concludere la loro Lettera, perché significa che possiamo convivere malgrado le nostre diversità, anzi che Dio ha voluto questa diversità!

    Verso il futuro

    Questa Lettera è un primo passo nel dialogo tra cristiano e musulmano. Spesso i cristiani hanno preso delle iniziative di dialogo; stavolta, per la prima volta, mi sembra, sono i musulmani a prendere l’iniziativa, e l’hanno fatto bene. È importante che questi primi passi continuino nella direzione di una maggiore chiarezza, anche mostrando differenze e necessità di correzioni. Siccome la Lettera è indirizzata a varie responsabili del mondo cristiano, si puo’ sperare che ci sarà una risposta a questa lettera, che è costata un immenso sforzo da parte musulmana.

    Ma questa Lettera è certamente indirizzata anche ai musulmani, anche se non è detto esplicitamente. Che peso avrà nel mondo islamico, mentre continuano le notizie di rapimenti di sacerdoti, persecuzione di apostati, oppressione dei cristiani? Finora non vi è stato alcun commento da parte islamica. Ma penso che col tempo questo documento potrà creare un allargamento e una convergenza maggiore.

    Soprattutto, c’è da sperare che il prossimo passo si affronteranno le questioni più sensibili della libertà religiosa, del valore assoluto dei diritti umani, del rapporto tra religione e società, dell’uso della violenza, ecc., insomma delle questioni attuale che preoccupano tanto il mondo musulmano (e direi in primo luogo i musulmani) quanto il mondo occidentale.

    [1] Per il testo completo della Lettera v. http://www.acommonword.com/index.php?lang=en&page=downloads


    http://www.islamistica.com/daniele_mascitelli/corano.html

    Il Corano e il suo valore fondativo

    "Questo è il Libro scevro di dubbi dato come guida per i timorati di Dio - i quali credono nell'Invisibile, eseguono la Preghiera ed elargiscono di ciò che loro abbiamo donato - e che credono in ciò che è stato rivelato a te e in ciò che è stato rivelato prima di te e son certi del mondo dell'Aldilà" (Cor. II 2-4)
    "A.L.R. Ecco i Segni del Libro Chiarissimo: - ecco, l'abbiamo rivelato in dizione araba a che abbiate a comprenderlo" (Cor. XII 1-2)
    Il Corano (ar. qur'_an) ha un valore fondativo nell'islam sotto molti aspetti. Il primo è, ovviamente, l'aspetto religioso: il Corano, infatti, secondo l'islam, rappresenta l'"ultima e definitiva" rivelazione di Dio agli uomini. Esso riporta fedelmente le parole di Dio, trasmesse così come sono e non interpretate o mediate dall'intervento umano. Il Profeta Mu.ham+ad, infatti, non è che una sorta di tramite vocale fra Dio e gli uomini, un "trasmettitore" che ha ricevuto il messaggio divino tutto in una volta e lo ha ripetuto così com'era, in rivelazioni successive.
    La redazione attuale del Corano, risalente all'epoca del Califfo Othman, si compone di 114 capitoli (sure, corrispondenti grosso modo a singole rivelazioni), suddivisi a loro volta in versetti di varia lunghezza e poeticamente ritmati e rimati. Il Corano esprime in una lingua "perfetta" e inimitabile un insieme eterogeneo e non sistematico di preghiere, invocazioni, precetti, storie di profeti, esortazioni, consigli e divieti. Essendo parola di Dio, tutto ciò che è riportato nel Corano ha un valore normativo, religioso e legale: dotti e giuristi musulmani hanno speso la loro vita a studiarlo, commentarlo ed interpretarlo (termine quest'ultimo non del tutto corretto dal punto di vista islamico), ricavandone regole di vita per le diverse società nei diversi periodi storici, sistemi teologici e filosofici, ma anche una storiografia adattata ad esso. Praticamente ogni espressione culturale prodotta nei secoli da menti di estrazione musulmana trova in esso agganci e ispirazioni.
    Il Corano, inoltre, insieme al monumentale corpus della poesia preislamica, è il fondamento della lingua araba classica così come la conosciamo oggi: il suo prestigio linguistico (dato che Dio si esprime in lingua perfetta e chiara) ha fatto sì che l'arabo classico si sia conformato alla sua struttura grammaticale e lessicale. Quest'ultima rappresenta la cristallizzazione di un momento linguistico (quello della lingua aulica-poetica della Penisola Arabica nel VIº e VIIº sec.) al quale l'arabo contemporaneo continua a far riferimento.
    Ma il Corano è fondativo anche di una scrittura, quella araba, derivata da varianti aramaiche e nabatee preesistenti, ma che fu "re-inventata" per fissare ciò che, per una trentina di anni dalla morte del Profeta, era stato trasmesso oralmente. In un primo momento, d'altronde, la scrittura araba, ancora imprecisa per quanto riguarda la distinzione delle consonanti e del tutto priva di vocali, serviva solo ad accompagnare la recitazione (qur'ân, Corano, ha anche il significato di "salmodia"), tanto che molti hanno visto nel suo particolare andamento grafico, ascendente, discendente ed elastico, una sorta di "partitura" sulla quale i "recitatori" (qurrâ'), che già lo conoscevano a memoria, esercitavano la loro particolare tecnica salmodica. Solo in un secondo tempo la scrittura araba, proprio per evitare la possibilità di letture discordanti del Corano, venne dotata di puntini diacritici e di segni per indicare le vocali.
    Infine il Corano è fondante anche per quanto riguarda l'estetica dell'arte islamica. A partire dal primo monumento ufficiale dell'arte islamica -- ossia la Cupola della Roccia di Gerusalemme -- l'iscrizione di versetti coranici diviene il tema iconografico centrale, andando ad occupare il posto che nell'arte cristiana hanno le rappresentazioni della vita di Gesù. La scrittura, manifestazione concreta della parola di Dio diventa così l'unica rappresentazione artisticamente possibile del divino.



    Daniele Mascitelli
    2005/set/24
     
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